Jelardi Andrea, GOFFREDO COPPOLA - UN INTELLETTUALE
DEL FASCISMO FUCILATO A DONGO
Euro 17,30 - 200 pp. - ill. b/n - brossura - ed. 2005 -
Mursia - Testimonianze fra cronaca e storia (1939-1945: Seconda Guerra
Mondiale). Descrizione fisica: 197 p., [4] c. di tav. : ill. ; 21 cm.
La Repubblica Sociale Italiana finisce tragicamente tra il 27 e il
28 aprile 1945, nei pressi di Dongo, sul lago di Como, dove Mussolini e
alcuni suoi fedelissimi, in un disperato tentativo di fuga, vengono arrestati
e poi giustiziati dai partigiani. Tra loro c'è anche Goffredo Coppola,
professore universitario di origini sannite, filologo, giornalista, rettore
dell'Università di Bologna e successore di Giovanni Gentile alla
presidenza dell'Istituto italiano di cultura. Gli ordini del CLN non lo
indicano tra i condannati a morte, eppure il suo nome è il primo
della lista degli uomini da fucilare, compilata dal comandante partigiano
Walter Audisio. La vita di Goffredo Coppola, dedicata allo studio dei classici
greci e latini, al giornalismo e alla strenua difesa dei suoi ideali, finisce
a Piazzale Loreto.
***
Goffredo Coppola, lo straordinario conoscitore degli insegnamenti delle
Civiltà latina, greca e mediterranea che lo elevarono nel biennio
l943-1945 a rettore magnifico dell'Università di Bologna proprio
allorquando s'inasprì in Italia il 2° conflitto mondiale con
l'invasione ang1o-statunitense sino ad arroccarsi sulle trincee della Linea
Gotica, e quasi alle propaggini del capoluogo emiliano, fu quell'eccellente
intellettuale che visse con piena responsabilità l'epopea della
Repubblica Sociale e, alla conclusione di quell'evento di riscatto dell'Onore
nazionale, seguì Benito Mussolini nell'itinerario tragico (come
io definì Giorgio Pini nell'opera omonima diffusa nel 1950 dalle
Edizioni Omnia di Milano) sul Lario e che aveva per destinazione l'estremo
ridotto di resistenza della RSI in Valtellina.
Allorché in piazzale Loreto a Milano i partigiani di Walter
Audisio gettarono sul selciato i cadaveri dei gerarchi fascisti trucidati
il 28 aprile a Giulino di Mezzegra e sul lungolago di Dongo -poi appesi
per i piedi alle traverse del distributore di benzina Standard Oil -pressoché
nessuno degli astanti ravvisa l'identità di Goffredo Coppola e negli
anni successivi "la critica e la storiografia seguendo una tendenza
comune protesa a omettere o a dimenticare espressero pochi giudizi e spesso
negativi sugli esponenti del Fascismo" perché, la demagogia
dei "liberati" dalla plutocrazia di Wall Street newyorkese e
della City londinese, volle sempre denigrare l'opera costruttiva non solo
degli esponenti della RSI e del PFR, ma anche quella degli uomini d'ogni
settore della cultura "che pure avevano dato contributi importanti
alla letteratura, all'arte e alla scienza italiane".
La gravità di queste omissioni è stata evidenziata da
Andrea Jelardi nell'introduzione del saggio "Goffredo Coppola, un
intellettuale del Fascismo fucilato a Dongo" (U.Mursia Editore, 2005)
e fa comprendere la potenza etica dell'integro professore che, nato a Guardia
Sanframondi (prove Benevento) il 21.9.1898, profuse con coerenza sannita
le sue capacità di perfezionamento conseguendo la laurea in lettere
e filosofia a Napoli (1920), il "premio Cantoni" all'Ateneo di
Firenze (1921) con l'ammissione all'Istituto di studi superiori e poi nella
Scuola papirologica, mentre nel 1929 assunse nell'Università di
Cagliari la docenza di letteratura greca. Aveva assolto inoltre i suoi
doveri militari quale ufficiale dell'esercito durante la "Grande Guerra",
dal 1917 in poi, e distinguendosi nel valore.
Dalla collaborazione iniziale con Girolamo Vitelli, il promotore della
filologia classica, a quella con Ugo Ojetti - fondatore della rivista "Pegaso"
- l'opera di Coppola è contrassegnata da affinamenti continui con
"Il Fedro di Alessi", mediante "Plauto e la commedia greca",
attraverso "Polis", con gli studi sui papiri ellenici ecc., arricchita
dalle "Commedie di Menandro" (ediz. Chiantore, 1927) e dalla
"Introduzione a Pindaro", stampato a Roma assieme al frammento
beotico dello "Orestas".
Nel 1932 a Coppola venne attribuita la docenza di letteratura greca
nell'Ateneo petroniano, dove lo zoologo e naturalista Alessandro Ghigi
era rettore e, mentre il Fascismo promosse in Bologna profondi perfezionamenti
e cambiamenti ne1 tessuto urbanistico (lo stadio Littorio, l'ampliamento
del politecnico Sant'Orsola, gli istituti universitari di via Belmerolo
e Irneio, nuove vie di comunicazione e parecchi insedia menti oltre la
cerchia delle antiche mura ecc.) favorendo la sua espansione sino a 300mila
abitanti, il professore sannita vivificò con le sue capacità
l'evoluzione delle manifestazioni culturali nell'Emilia e nella Romagna,
ad iniziare da quelle sul piano letterario.
Infatti, ecco - per onorare Giosué Carducci - le pubblicazioni
su "Il canto basco di Roncisvalle e la canzone di Rolando", per
"L'Orazio di Carducci", alle quali nel 1935 seguì la "Cimossa
Carducciana". Coppola intraprese nel contempo anche un'intensa attività
giornalistica, collaborando ai quotidiani "Il Popolo d'Italia",
il "Corriere della Sera" ed a "Il Resto del Carlino",
di cui vanno segnalati gli articoli "Ricordo di Giuseppe Albini",
"Cirene" del 28.10.1934 e "La scoperta di una nuova ode
di Saffo". Per gli studenti e il perfezionamento dell'apprendimento
presentò "La vita dei Romani"(1929), la "Grammatica
della lingua greca" seguita da "Lettere greche" (1935) sino
all'edizione commentata dei libri III e IV dell'Iliade e di quelli XXIII
e XXIV dell'Odissea, entrambi di Omero. Coppola effettuò anche una
visita a Cirene, in Libia, per gli studi sul poeta alessandrino autore
della "Chioma di Berenice" e nel 1935 elaborò lo studio
"Cirene e il nuovo Callirnaco" e specificò che ogni uomo
deve possedere "quel tanto di generosità che è necessario
a tramutare l'entusiasmo passeggero e frivolo in fede" , stimolo a
quelle virtù di coscienza patriottica di cui divenne apostolo durante
la RSI.
Poi, nel secondo conflitto mondiale, Coppola accentuò il suo
impegno culturale anche quando si recò volontario sulle fronti dì
Francia (1940) e di Russia (1941) e in merito indichiamo il rilievo di
A. Jelardi nel la sua biografia sull'intellettuale sannita (pag.69): "Il
volume intitolato <Epicuro> viene ripubblicato a Milano nel 1942
da Garzanti. Quest'opera è da considerarsi la più importante
perché nasce oltre che da ricerche e studi filologici, da un suo
bisogno intimo e spirituale che, come lui stesso scrive, è nata
così, tra una marcia e qualche colpo di cannone". Coppola sente
Epicuro nei momenti difficili e del filosofo greco, con senso quasi profetico,
aggiunse come "sommerso in sé medesimo il solo Epicuro che
sembra inerme di fronte alla realtà, ha una fede. Egli che sarà
bestemmiato e vilipeso e maledetto e offeso e calunniato nei secoli, egli
solo vive nel pensiero e intuisce e sente per primo i problemi della sua
generazione e cerca di rischiarare la via con la sua fede universale di
uomo condannato a morte ma pur gioioso di vivere e nient'affatto timoroso
della morte". Purtroppo, Coppola ebbe in ciò un'ineluttabile
previsione degli eccidi compiuti poi dai "liberati" dagli invasori
anglo-statunitensi al termine del 2° conflitto mondiale (Giulino di
Mezzegra, Dongo e nelle città e nei paesi della RSI terrorizzati
dopo il 25 aprile dalle tragiche conclusioni della "guerra civile")
e consente oggi di riconoscere che quando seguì Mussolini verso
Como, Dongo e l'utopia del l'ultima ridotta in Valtellina, era cosciente
dell'imminenza d'una tragica fine.
Sebbene soffrì l'arresto nel 1943 dopo il 25 luglio, fu tra
i primi all'indomani dell'8 settembre ad aderire alla RSI e lo fece, oltre
che assumendo il compito di rettore dell'Università bolognese, per
volontà di riscatto dell'Onore della Patria, determinazione identica
a quella del filosofo Giovanni Gentile, dello storico Gioacchino Volpe,
dell'economista Franco Ercole, del futurista Filippo Tommaso Marinetti,
del geologo Giotto Dainelli, dell'archeologo Pericle Ducati, dello scritto
re Ardengo Soffici, del pittore Cipriano Efisio Oppo, dell'anziano senatore
Vittorio Rolando Ricci che divenne uno degli esponenti più rappresentativi
dello Stato nascente (vedasi l'articolo "Scelta" che pubblicò
sul Corriere della Sera del 3.11.1943) e di tutti gli esponenti di disparate
dottrine del sapere che confermano soprattutto oggi il ruolo di primo piano
che ebbe la cultura nella Repubblica di Mussolini.
Quando il 14 aprile 1944 - a Firenze - il filosofo Gentile venne assassinato
da cinque 'gappisti' comunisti guidati da B. Fanciullacci, alla presidenza
dell'Istituto italiano di Cultura venne designato Coppola e, nel contempo,
in seguito alla nomina di Giotto Dainelli alla guida dell'Accademia d'Italia
vennero conferiti il premio perle scienze al matematico Leonida Tonelli
e quello per la letteratura a Marino Noretti, anche se tale poeta fosse
apertamente antifascista.
Emerse la capacità di Coppola anche quale direttore della rivista
"Civiltà Fascista", in cui pubblicò articoli di
rilievo intellettuale quali Esame di coscienza, su La città avvenire,
per l'Omaggio a D'Annunzio, con L'ultimo eretico e chiarificando sempre,
con precisione, quant'è indispensabile in ognuno la consapevolezza
dell'Italianità, mentre attraverso un elzeviro evidenziò
quel Dialogo quasi socratico approntato da B. Mussolini per tale giornale,
scritto consegnatogli dal capo della RSI durante un loro incontro nell'autunno
1944 a Gargnano.
L'importanza di quello scritto venne indicato da G. Pini e da D. Susmel
nell'opera "Mussolini l'Uomo e l'opera" (vol. IV - Dall'Impero
alla Repubblica - pag. 41/4. - Ediz. La Fenice, 1955) tracciando, in sintesi,
le osservazioni del Duce: "Qual'è la gloria che ha la più
vasta portata, la più grande significazione nella vita dei popo1i?
Non, esito un solo momento a risponderti: la militare. Mi pare d'intuirlo,
ma vuoi_ specificarmi perché? La gloria militare è legata
alla guerra e la guerra è la prova suprema nei rapporti fra i popoli.
E'i1 grande esame comparativo. Attraverso la guerra un popolo rivela le
sue virtù e i suoi difetti. Se gli elementi deteriori superano i
superiori, il destino di un popolo è segnato. Non vi è altro
mezzo all'infuori della guerra per scoprire l'inganno su se stesso di un
popolo. Ritieni che la gloria militare sia necessariamente legata alla
vittoria? No. Affatto. Si può perdere bene si può vincere
male. Ci sono delle disfatte gloriose e delle vittorie equivoche. Quando
un popolo resiste fino all'estremo, la gloria ne bacia le bandiere anche
se fu avversa la sorte delle armi. Vi sarà sempre rispetto e poesia
per coloro che hanno combattuto".
In quell'ardente fase di passione nella RSI, specie dopo il successo
politico conseguito da Mussolini a Milano con il discorso al Lirico e nell'incontro
diretto con il popolo e le categorie produttrici della Lombardia, Goffredo
Coppola - più d'ogni altro - inserì il valore intellettuale
nella realtà del Fascismo (quella proiettata dal "programma
di S.Sepolcro" al progetto mondiale di socializzazione dell'economia
produttrice) e l'attuò anche con la pubblicazione della sua ultima
opera letteraria stampata a Verona nel febbraio 1945. Si tratta della traduzione
completa de "I caratteri" del filosofo e scienziato greco Teofrasto
(322-287 a.C.), uno studio di rilevante impegno che il rettore del l'Ateneo
felsineo dedicò a Mussolini con preciso scritto.
Coppola, indicando quanto Teofrasto perfezionò la disciplina
della retorica dopo Aristotele, elevò l'inno della virtù
per la coerenza del pensiero nell'azione politica, basata sulla correttezza,
nella perspicuità e nell'appropriatezza, da sincronizzare nella
logica di principii irrinunciabili. In ciò, il professore sannita
è continuatore di quella mistica fascista che ebbe in Berto Ricci,
con Guido Pallotta e Niccolò Giani quegli eroi che la Storia ha
sempre onorato. Nell'elegia di commiato dell'Itinerario tragico
1943-1945 (op. cit.), pag. 310, Giorgio Pini così conclude: "Fa
ora, o Signore, che la tua croce risorga sulla loro tombe deserte, a esaltare
il loro sacrificio di fede a te e all'Italia. Fa che la tua croce redima
1e coscienze intristite di quanti vollero o compirono l'orrenda strage
fraterna". Tale riscatto morale - anche per Coppola - è stato
intrapreso.
S'illumina con l'opera biografica di A. Jelardi che nel cap. VI - pag.
140 - inerente "il ricordo", indica come la sua salma è
stata traslata nel 1954 al cimitero della Certosa a Bologna e che, nel
1957, il suo il ritratto di rettore è stato collocato nell'Università
petroniana tra quanti lo precedettero e lo seguirono in quell'incarico.
Indi, Piero Treves ha tracciato la figura e l'azione di Coppola nel Dizionario
biografico degli Italiani, edito dalla Treccani. Enzo Degani ha esposto
lo studio sull'attività filologica dell'Ateno felsineo che ha intitolato
"Da Gaetano Pellicciani a Goffredo Coppola: la letteratura greca a
Bologna dall'unità d'Italia alla liberazione" (ediz.
1989). A Toronto - nel Canada - alla Convention del 1997 della "Modern
Language Association of America" sul tema "Humanism under Fascism"
diversi studiosi quali S.Jed, N.Zemon Davis, J.Tylus e D.Gagliani esposero
la relazione "La colpa di Erasmo: Goffredo Coppola e la cultura ita1iana
e fascista in rapporto con la cultura umanista". Infine - nel 2004
- all'università di Bologna i professori Gianpaolo Brizzi, Guido
Melis e Luciano Casali hanno svolto un seminario in cui di Coppola sono
state ricordate le sue qualità di docente, d'esponente politico
e di rettore.
Noi però, su quest'Uomo che seppe svolgere la propria missione
d'intellettuale quale esempio di serenità e di coraggio, segnaliamo
quanto Umberto Guglielmotti - nell'indicare le figure illustri della RSI
da lui inserite nel volume "I grandi Italiani", ediz. CEN, 1970
- volle specificare: "Ricordo Goffredo Coppola in qualche rapido incontro
in quei mesi drammatici, sempre fervido idee... Era in pace con la coscienza
poiché aveva già risolto il dilemma O vincente o caduto".
E' stato pertanto un fervido legionario della sua Fede politica, è
rimasto il grande intellettuale della migliore Cultura italica, mediterranea
ed europea.
***
Era un sannita. La figura di Goffredo Coppola, già rettore dell’Università
di Bologna, rievocata in una ricca e documentata biografia del nostro collaboratore
Andrea Jelardi per le edizioni Mursia
Andrea Jelardi si può dire che come giornalista e scrittore
è nato ed è cresciuto nell’ambiente di Realtà Sannita
per le cui edizioni ha già pubblicato “Benevento antica e moderna
(2000); Giuseppe Moscati e la scuola medica sannita del novecento (2004)
nonché, di imminente pubblicazione, “Almerico Meomartini, architetto
e archeologo” . Ma anche tanti e tanti articoli. Ora Andrea spicca il volo
con questa pubblicazione che è destinata ad avere una larghissima
diffusione perché è edita da una grande casa editrice di
rilevanza nazionale e poi perché il personaggio, Goffredo Coppola,
è poco conosciuto, ignorato persino dalla stragrande maggioranza
dei sanniti e conterranei di Guardia Sanframondi dove è nato. Eppure
trattasi di personalità di grande spessore culturale per i suoi
studi dei classici greci e latini. Filologo, giornalista elegante e raffinato,
fu rettore dell’Università di Bologna e successore di Giovanni Gentile
alla presidenza dell’Istituto italiano di cultura. Finì a Piazzale
Loreto per la strenua difesa dei suoi ideali. L’idea di questo libro –
ci riferisce Jelardi – mi venne dall’on. Roberto Costanzo che alla presentazione
del mio primo libro proprio alla Camera di Commercio dove lui era presidente,
mi disse: Coppola è un personaggio poco noto, vale la pena di fare
una indagine approfondita. E devo dire - ribadisce Andrea - che non è
stato facile, basti pensare che per rintracciare qualche erede, una nipote,
vi sono riuscito partendo dal contratto della luce votiva al cimitero di
Bologna dove è sepolto. Devo anche dire – aggiunge Andrea – che
all’Università di Bologna mi hanno spalancato tutte le porte e messo
a disposizione tutti gli archivi, segno evidente che il ricordo dell’Uomo
rimasto troppo tempo nell’ombra, è ancora vivo in quegli ambienti
molto severi ed austeri. In appendice al volume vengono riportati, tra
l’altro, alcuni suoi scritti sulla Riforma scolastica. Ci sia consentita
un’ultima annotazione, il volume è dedicato al nostro direttore
con queste parole riportate a pagina quattro: “A Giovanni Fuccio che ha
per anni incoraggiato e sostenuto la mia attività giornalistica
e di ricerca”. Una dedica tanto inattesa quanto gradita. Persino commovente,
segno evidente che questo giornale, come gli altri periodici sanniti, conservano
una valenza che il tempo non scalfisce. Ad Andrea: Ad maiora, semper!
***
La Repubblica Sociale finisce nei pressi di Dongo,sul lago di Como,dove
Mussolini e alcuni fedelissimi, vengono arrestati e poi giustiziati dai
partigiani.Tra loro c’è anche Goffredo Coppola, professore universitario,
filologo, giornalista.Il suo nome è il primo della lista degli uomini
da fucilare, compilata dal comandante partigiano Audisio.
Il filologo sannita Goffredo Coppola morì con Mussolini a Dongo
Nei prossimi mesi le edizioni Realtà Sannita pubblicheranno
per la collana 'I Protagonisti' un volume dedicato ad Arturo Bocchini,
Goffredo Coppola ed Arturo Jelardi, tre personaggi sanniti che ebbero un
ruolo di primo piano durante il ventennio fascista: Bocchini, fu infatti
il Capo della Polizia e della potentissima OVRA, Coppola, illustre filologo,
fu Rettore dell'Università di Bologna e fu fucilato con Mussolini
a Dongo nel 1945, mentre Jelardi fu il primo Segretario Federale del Sannio.
Ai tre protagonisti verrà dedicato eccezionalmente un unico
volume, in quanto essi rappresentano tre progressive fasi del regime: la
prima di organizzazione e di insediamento a livello nazionale e locale,
rappresentata a Benevento da Arturo Jelardi, la seconda di grandi successi
con personaggi potenti come Bocchini ai vertici del regime, e la terza
finale, con i giorni pre e post otto settembre e della Repubblica Sociale,
di cui Coppola fu tra i principali protagonisti.
Dei tre personaggi solo Arturo Bocchini è già noto alla
storiografia nazionale ed internazionale, mentre gli altri due sono stati
dimenticati per molti anni. Il volume nasce appunto per ricostruire le
biografie di questi tre sanniti illustri, protagonisti di un difficile
e controverso periodo della storia d’Italia, accomunati oltre che dalle
origini sannite, anche da fatti e vicende diverse, che si succedono e si
intrecciano per poco più di un ventennio.
Si è cercato quindi di fare luce non solo sulla loro carriera
professionale, ma anche sugli aspetti più intimi e tormentati delle
loro vite, e per questo nel libro saranno pubblicate anche testimonianze
di persone che furono a loro vicine.
Proprio nei giorni scorsi chi scrive ha incontrato nella sua casa di
Roma la nipote di Goffredo Coppola, la signora Rachele Olivieri a cui ha
rivolto alcune domande sull’illustre zio, fratello della madre.
Eleonora Olivieri, come ricorda suo zio Goffredo Coppola, che fu
uno dei più illustri grecisti del '900?
Goffredo Coppola era un fratello di mia madre, il più piccolo.
Lo ricordo bene, anche se egli veniva a Roma, dove vivevamo, molto raramente.
Preferiva alloggiare all’Hotel De La Ville, piuttosto che a casa nostra,
perché non rinunciava alla sua intimità, era piuttosto burbero
e schivo, perché sempre immerso nei suoi studi. Era per questo anche
molto distratto e preso dai suoi pensieri tanto che una volta fu investito
da un'automobile, mentre attraversava la strada leggendo il giornale.
Lo zio fu appunto uno dei più illustri filologi del primo novecento,
e solo dopo l'8 settembre cominciò a fare politica attiva.
A cosa attribuisce questa scelta?
Mio zio fu indubbiamente uno dei più importanti filologi del
novecento, ma fu anche giornalista e si interessò, oltre che di
letteratura greca e latina anche di altri studi; pubblicò infatti
anche scritti sul Carducci. La politica attiva per gran parte della sua
vita non lo interessò, ma solo dopo l'otto settembre prese la decisione
di dare un contributo attivo alla Repubblica di Salò, fu eletto
Rettore dell'Università di Bologna, fece un viaggio in Germania,
e incontrò più volte Mussolini. La passione per la politica
l'aveva ereditata dal padre Pietro Coppola, personaggio politicamente molto
attivo negli ultimi anni dell'800, e ancora di più questo interesse
l'aveva ereditato suo fratello Mario.
Il ricorda di suo zio Mario Coppola?
Zio Mario era il secondogenito dei fratelli Coppola, ed era il mio
zio preferito. Aveva lo stesso nome di mio padre e per questo sin da bambina
affettuosamente lo chiamavo ‘zio Coppola’. Ero legatissima a lui, ed è
morto qui a Roma in casa mia, nel 1956. Era stato un personaggio politicamente
molto attivo, fu Podestà di Benevento e fu uno dei collaboratori
di Arturo Jelardi. Ricoprì anche l'incarico di Capo dell'Ufficio
Stampa della Federazione Provinciale Fascista di Benevento. Dopo la tragica
morte del fratello si rifugiò a Venezia e poi a Vetralla presso
Viterbo, ove mia madre provvide a farlo accogliere in un convento dei padri
Passionisti.
Coppola erano originari di Guardia Sanframondi, come mai nessuno
di loro vi ha mai fatto ritorno?
La famiglia Coppola aveva a Guardia Sanframondi una bella casa con
un grande giardino, ma nei primi anni del novecento mio nonno e i suoi
figli si trasferirono a Benevento, in una casa a Piazza Roma. Poi durante
la guerra i miei nonni morirono di spagnola ed i tre fratelli rimasero
orfani giovanissimi. Mia madre si sposò e si trasferì a Roma
mentre mio zio Goffredo, intraprese la carriera universitaria dapprima
a Cagliari e poi a Bologna. Rimase a Benevento soltanto Mario, che dopo
la seconda guerra mondiale raggiunse la sorella a Roma.
Goffredo Coppola fu fucilato a Dongo nel 1945, come ricorda quei
giorni ?
Quando mio zio Goffredo fu fucilato a Dongo noi eravamo a Roma. Con
lui morirono Mussolini ed altri gerarchi. Il suo cadavere fu esposto a
Piazzale Loreto e poi seppellito a Milano. Negli anni '50 i suoi resti
furono traslati al cimitero di Bologna, città ove egli aveva sempre
vissuto. Mio padre e mio zio Mario provvidero alla traslazione e mio zio
scrisse l'epigrafe in latino per la sua tomba. Dopo la sua morte molti
si sono interessati, della sua produzione letteraria, e tra questi vorrei
ricordare soprattutto Lietta Tornabuoni, che su mio zio scrisse un bellissimo
articolo. Purtroppo di mio zio Goffredo non posseggo nulla, tranne una
vecchia fotografia degli armi giovanili. Era una persona schiva e riservata
non amava conservare oggetti e scritti personali, era sempre impegnato
nei suoi studi, e la sua produzione letteraria è il suo ricordo
più importante.
I ricordi della signora Olivieri ci hanno permesso di conoscere anche
gli aspetti più intimi e personali della vita di Goffredo Coppola,
illustre filologo di Guardia Sanframondi, che pagò con la vita la
sua adesione al fascismo. Purtroppo però per anni, dopo la sua morte,
i molti suoi biografi, sono stati inclini a sminuire la sua attività
professionale, proprio per i suoi ideali politici. Ma Coppola, così
come Bocchini e Jelardi, fu figlio del suo tempo, visse ed operò
in uno dei più controversi periodi della storia italiana, lasciando
comunque un contributo di grande rilievo nella filologia del novecento,
che non può essere ignorato.
Come lui anche Bocchini e Jelardi, sono stati indiscussi protagonisti
della storia italiana e sannita, e per questo oggi nel volume di prossima
pubblicazione, si è voluto fare luce sulle loro vite e sulle loro
storie, da cui vengono fuori tre momenti diversi del ventennio fascista,
tre modi diversi di fare politica, tre ritratti di personalità che
furono esaltate e temute nei momenti di gloria, per poi essere criticate,
sminuite, se non addirittura dimenticate dall'Italia del dopoguerra.
ANDREA JELARDI
REALTA' SANNITA n. 11 / 16-3O giugno 2002
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Leonida Fazi LA REPUBBLICA FASCISTA DELL'HIMALAYA
Edizioni Settimo Sigillo pp. 475, euro 24,00. 2005
Precedente edizione: vedi 1992
Recensione di Enzo Erra
La ripubblicazione di questo epico e appassionante libro di Leonida
Fazi, giunge dopo la scomparsa dell’Autore, come un estremo monito lanciato
al di là della vita, come un autentico testamento spirituale. L’altissimo
contenuto del “La repubblica fascista dell’Himalaya” si riassume già
nel titolo, che riunisce la passione per Patria e la fede nell’idea, riaffermate
come una cosa sola. La “Repubblica” di cui si narra è un campo di
concentramento costruito dagli inglesi in India per raccogliervi i prigionieri
catturati nei primi anni di guerra sui campi di battaglia africani. Questi
uomini, ora disarmati e in balìa del nemico, si sono battuti con
tutte le loro forze prima di cedere all’avversa sorte. Fazi non era uno
dei 250.000 soldati che il 15 maggio 1943 si erano arresi quando l’Armata
italo-tedesca non aveva più potuto difendere la Tunisia, dove si
era ritirata dopo la battaglia di El Alamein e dopo lo sbarco americano
ad Orano. La “sua” guerra era finita assai prima, nel marzo del 1941, su
una delle quote dell’Halfaya, al confine tra l’Egitto e la Libia, dove
la compagnia cannoni del reggimento bersaglieri di cui egli comandava un
plotone, era stata sopraffatta da un contrattacco delle forze corazzate
britanniche. Fazi e altri, altri ufficiali del reggimento, erano stati
fatti prigionieri, ma la loro Odissea, a quel punto, era cominciata appena.
Sballottati in un rudimentale e provvisorio campo in Palestina, poi in
una nave olandese requisita agli inglesi, infine approdati ad un definitivo
campo di prigionia allestito dagli inglesi alle falde dell’Himalaya. I
prigionieri avevano affrontato inumani disagi, ma avevano sempre saputo
conservare, in cima ai loro pensieri, il senso del dovere, la fierezza
di militari italiani e la dignità di ufficiali.
Chi scorre la prima parte del libro, che narra le fasi di una lotta
durissima, combattuta in costante inferiorità di armi e di mezzi,
sente che attraverso i decenni gli giunge l’eco di una solenne, sonora
smentita alla ignobile menzogna della “guerra non sentita”, foggiata e
fatta circolare dalla propaganda nemica all’esterno e dai suoi ausiliari
e sostenitori all’interno. I soldati di cui Fazi ci narra le imprese, combattono
non solo perché “devono” combattere, ma anche e soprattutto perché
“vogliono” combattere, non solo perché la Patria li ha chiamati,
e gli uomini degni di questo nome obbediscono a quel richiamo senza farsi
domande e porsi problemi, ma anche perché sentono nel profondo le
ragioni che hanno spinto la Patria a chiamarli, le cause reali che hanno
provocato quel conflitto a cui stanno partecipando, le ragioni storiche,
politiche, vitali che hanno indotto i popoli ad armarsi e scontrarsi, gli
uni per difendere una iniqua supremazia, gli altri per rivendicare una
autentica indipendenza, ingiustamente sottratta e negata. I Bersaglieri
e gli artiglieri tra i quali Fazi combatte e di cui narra le vicende e
le imprese, non ripetono e non esibiscono i tipici motivi di quella che
era, a quel tempo, la propaganda di guerra italiana, ma da quel che fanno,
dalla tenacia durissima con cui lo fanno, si sente che quei motivi sono
per loro la carne e l’anima, la vita e la capacità di rischiarla
o infine di perderla.
Ma la vera tragedia che stava per investire quei soldati dopo che avevano
dovuto rinunciare a combattere, non era ancora venuta. Venne con quelle
che nel titolo di un capitolo del libro vengono definite le “mazzate alla
nuca” del luglio e del settembre del 1943, quando i prigionieri appresero
che nell’Italia in cui avevano creduto e per la quale tanti loro camerati
avevano dato la vita, era cambiato tutto, perché l’uomo che aveva
governato la Patria e guidato il Fascismo, era stato deposto e arrestato,
e che a deporlo e arrestato era stato il Re. Come a quel tempo per la grande
maggioranza degli italiani, anche per quei prigionieri il Re aveva impersonato
l’immagine dell’Italia, e di Duce quella del Fascismo. Le due immagini
si erano fuse in una, in quella dell’Italia Fascista, che aveva intrapresa
la guerra e che i combattenti – anche se prigionieri – volevano portare
alla vittoria.
Ed ora, proprio il Re aveva deposto e fatto arrestare il Duce. Il mondo
intero di era capovolto, nella sua realtà come nei suoi valori,
e dalle poche, stentate spesso inattendibili notizie che i prigionieri
ricevevano, non era facile farsi un’idea di quello che era accaduto. Ma
il vero volto della tragedia che investiva quei soldati dopo che avevano
dovuto cessare di combattere, si svelò l’8 del mese di settembre,
quando i prigionieri appresero che alla caduta del Regime Fascista, era
seguita la resa dell’Italia, e compresero che Badoglio, nuovo capo del
governo, aveva mentito quando aveva solennemente affermato “la guerra continua”.
E ora, i vecchi nemici divenuti carcerieri, si presentavano a raccogliere
i frutti di quella che ne ritenevano una naturale conseguenza. Da quel
momento, infatti, si vide che la loro principale preoccupazione era divenuta
quella di trascinare dalla loro parte, ovvero da parte di quel governo
italiano che si era allineato con loro, in maggior numero possibile di
prigionieri, soprattutto ufficiali. Si capì quindi che lo scopo
di questa operazione era soprattutto di natura politica e storica, perchè
il numero degli ufficiali detenuti non era tanto alto da giustificare gli
sforzi. Quello che si voleva ottenere, era un avallo per il colpo di stato
e per la resa senza condizioni, avallo che nessuno aveva dato e fino al
quel momento nessuno aveva avuto il coraggio di chiedere. Lo chiedevano,
ora, non a cittadini comuni e senza qualifiche, e nemmeno ai semplici militari,
ma a coloro che avevano affrontato il nemico con le armi in pugno e, nella
grande maggioranza dei casi si erano battuti fino a quando era divenuto
impossibile battersi.
Gli inglesi cominciarono quindi, direttamente o con l’aiuto di colonnelli
e generali italiani che collaboravano con loro, a chiedere una dichiarazione
scritta di conferma del giuramento al Re. Il successo fu scarso, anche
perché non manca chi fece osservare che chiederne la conferma inficiava
il valore del giuramento. Con una mossa successiva, gli inglesi chiesero
– in considerazione dell’armistizio firmato dal governo regio, che i prigionieri
si dichiarassero disposti a militare accanto agli inglesi. Questo scoperto
e indegno voltafaccia fu respinto dalla maggioranza dei prigionieri, e
gli inglesi provarono allora ad abbordare la questione dal lato del sentimento
e della dignità militare, e accusarono e fecero accusare i ribelli
– definiti subito e senz’altro “Fascisti” – di codardia, perché
rifiutavano di combattere. Questa volta la manovra stava per fare breccia
perché feriva sul vivo, ma un fatto nuovo consentì ai prigionieri
di sventarla, confermando e anzi rafforzando da un opposto punto di vista.
Si era appreso infatti che Mussolini era stato liberato, ed aveva fondato
un nuovo stato, che aveva denominato “Repubblica Sociale Italiana”. I prigionieri
“non cobelligeranti” redassero allora una “loro” dichiarazione di adesione
a questa nuova Repubblica.
Questa volta il successo fu enorme e gli inglesi si videro consegnare
queste dichiarazioni a centinaia.
Essi pensarono allora che non potendo controllare la dissidenza, tanto
valeva ammetterla e circoscriverla riunendo i “Fascisti non cobelligeranti”
in un particolare recinto riservato, in modo che il loro atteggiamento
non si estendesse per propaganda o per virtù di esempio.
Fecero circolare perciò tra i prigionieri un modulo in cui ciascun
“Fascista non cobelligerante” chiedeva di essere trasferito in un settore
“congeniale”. Poiché già alcuni “Fascisti” erano già
stati assegnati al terzo settore del campo 25, gradualmente tutti quelli
che firmavano la domanda vi vennero trasferiti. Questo settore divenne
così una specie di propaggine della Repubblica Sociale trapiantata
in piena India alle falde dell’Himalaya. I Fascisti vi si impiantarono
e si organizzarono, si diedero regole proprie, elessero un colonnello italiano
come comandante al posto di quello “badogliano” che avevano dovuto subire
in precedenza. Infine trascrissero e firmarono il giuramento di fedeltà
alla Repubblica Sociale e poi tutti insieme lo recitarono.
Nacque così la “Repubblica Fascista dell’Himalaya” che Fazi
scelse poi come titolo al libro. I prigionieri non ebbero timore di definirsi
o essere definiti “Fascisti” e così non ebbe timore Fazi nel dare
questo nome alla sua esperienza ed al suo libro. Ulteriore monito, questo,
nei tempi strani in cui tanti, anche nel mondo umano che dovrebbe rivendicare
con orgoglio quella esperienza e quel nome, non si osa o non si vuol farlo,
anche se oggi fuori da reticolati e da recinti, senza sentinelle armate
di guardia, sarebbe tanto più facile e semplice essere senza timore
se stessi.
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