BERSAGLIERI DEL "MAMELI" DELLA REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA



BENITO BAZERLA E FRANCO ASCHEDAMINI Ricordo di due eroi del "Mameli"
Ugo Franzolin
 
 
    I Bersaglieri del «Mameli» erano schierati tra Monte Cucco e Monte Porrara, nella valle del Santerno, Appennino tosco-emiliano, agosto-settembre 1944.
    In attesa, a Verona, di partire per la Germania, con altri corrispondenti di guerra, invitati dallo stato maggiore della Wehrmacht, avevo avuto notizia del loro addestramento prima dell'impiego al fronte. Raggiunsi la loro caserma, presi appunti, scattai delle fotografie, fui presentato al tenente Dani, comandante di compagnia, e al tenente Aschedamini, comandante di plotone.
    Con Aschedamini, giovanissimo tenente, di poche parole, di grande fascino presso i suoi volontari, elegante nella sua vecchia, stiratissima divisa di bersagliere, vi era un ragazzo alto, snello, riservato, ancora vestito in borghese, la camicia bianca aperta sul petto, come usava in quegli anni. -Benito Bazerla si è arruolato nel «Mameli», disse Aschedamini presentandomelo, vuole ad ogni costo venire con noi. -Perché ad ogni costo?, osservai un po' sorpreso. -Ha qualche problema di vista, rispose Aschedamini, ha solo diciotto anni, i regolamenti sono poco flessibili, in questi casi.
    Incontrai Bazerla qualche giorno dopo, in piazza Bra. Una emittente locale, con sede e altoparlanti nella piazza che i veronesi considerano il loro salotto, mi aveva invitato a parlare dei volontari affluiti nella Repubblica sociale. Un tema impegnativo, sia per il fenomeno in sé, unico di quelle proporzioni, nella storia del nostro Paese, sia ancora perché i volontari appartenevano a tutte le classi sociali, confermando l'analisi, oggi consegnata alla storia, che, dopo l'otto settembre e la fuga ignominiosa del re e di Badoglio, capo del governo, verso i vincitori provenienti dal Sud, il problema morale di tantissimi giovani e meno giovani era affermare il principio di una scelta che rifiutasse la resa, anche se questo poteva costare la vita. Quell'impegno estremo fu chiamato onore, una parola oggi confusa nelle suggestioni fuorvianti del consumismo, rimossa da una cultura che predilige la rappresentazione.
    La sera stessa del nostro incontro a piazza Bra, andammo a casa di un altro ragazzo del «Mameli», pianista di buon livello. La madre, mentre il figlio correva con le dita sulla tastiera, giocando su una composizione cameristica rossiniana, veloce, ironica, felice, preparava dei panini con fettine di uova sode e una salsa di capperi.
    Benito non sapeva cosa fosse la guerra. Il padre gli parlava della sua, quella del Carso, ma la seconda guerra mondiale, l'Africa, la Russia, l'Albania, la Grecia, le battaglie navali, l'impari lotta nel cielo, erano capitoli di una storia complessa, ombre e luci, nella quale l'intreccio assumeva aspetti perversi e l'eroismo, il coraggio, la lealtà si perdevano in una palude fumigante, orgoglio senza parole di una generazione romantica che aveva ascoltato la lezione dei padri. Gliene parlavo. Ma la mia guerra, per quel po' o tanto che ne potevo dire, i miei due anni d'Africa, mi avevano portato al pessimismo e, quasi, alla rassegnazione. Avevo visto con i miei occhi da una parte l'abnegazione, lo slancio di chi si impegnava oltre ogni limite, dall'altra il carrierismo sordo, il disinteresse quasi ostentato per quanto di disastroso - El Alamein - stava accadendo.
    Benito mi ascoltava, forse credendo, e, in cuor suo sperando, che il mio fosse il giudizio rancoroso, esasperato, di chi era partito con l'idea della vittoria, nell'attesa dell'evento risolutivo per le nostre armi e per l'Italia, ed era tornato fuggiasco, ragazzo ancora, eppure così umiliato dalla durezza degli eventi.
    - Ma tu sei qui, mi disse un giorno, perché?
    - Oh, perché!, quasi esclamai, perché... perché...
    Il tenente Aschedamini mi chiamò al telefono. Mi invitava a cena all'Accademia, un ristorante frequentato dalle forze armate. Il «Mameli» partiva per il fronte e voleva salutarmi.
    - Volentieri, gli dissi, ma a una condizione, che con noi ci sia Benito Bazerla, mio ospite. - Ma certo, ma certo, replicò il tenente, Benito è un caro ragazzo, entusiasmo, fede, la splendida innocenza dei pochi anni.
    Eravamo seduti a un tavolo del ristorante in attesa di un minestrone di verdure, ricetta fissa in quegli anni di tessera. - Il comandante Dani non vuole che Bazerla venga con noi, disse Aschedamini, per quell'occhio...
    - Insomma, quest'occhio, cos'ha?, indagai con una certa leggerezza di tono, per sdrammatizzare e sbirciando il viso del ragazzo.
    - Ci vedo da un occhio solo, disse Benito sottovoce, da bambino, un gioco... non fu possibile salvarlo. - Ma in guerra si mira con un occhio solo!, esclamai. La battutina stemperò la situazione.
    Partirono due giorni dopo. Anche Benito partiva: il comandante aveva ceduto all'insistenza del ragazzo.
    Misi la sveglia alle quattro, lo scaglione di Aschedamini partiva alle cinque.
    Albeggiava appena. Disciplina, rapidità, ordine. I camions partirono. Stetti a guardare finché l'ultimo camion scomparve oltre San Zeno, verso la strada per il Sud. L'estate stava finendo. Tornato dalla Germania, il gruppo dei corrispondenti di guerra fu impegnato sui fronti. Andai in Garfagnana, dove era schierata l'armata Liguria - Monte Rosa, Littorio, San Marco, Italia - al comando del maresciallo Graziani.
    A Milano, sede del gruppo, trovai una cartolina di Bazerla. Una anche di Aschedamini. Un saluto e, stranamente, di tutti e due, un appuntamento.
    Dovevano difendere posizioni difficilissime nella Valle del Santerno, occupare le alture impervie, boschi, dirupi, forre, dei monti Cucco e Porrara. Poche armi, munizioni contate, possibilità di riuscita, zero.
    Illusi?, incoscienti?, pazzi?
    Sappiamo che non erano né illusi, né incoscienti, né pazzi. La Valle Padana era alle loro spalle. Le ore erano contate. Gli Alleati scaricavano sulle nostre linee il mare fragoroso, micidiale, inesauribile del loro apparato bellico.
    Benito Bazerla aveva diciotto anni, Franco Aschedamini ventidue quando caddero a breve distanza uno dall'altro, dopo assalti ripetuti, il 26 settembre del 1944. Il loro ricordo, il testamento delle loro giovani esistenze - oggi dimenticato, vilipeso, o considerato ingombrante e inutile - un giorno sarà l'unico patrimonio di un popolo, se vorrà ritrovare dignità e orgoglio che essi, eroi adolescenti, o nel pieno della giovinezza, scrissero con il sangue sulle loro bandiere.
 
 
L’ULTIMA CROCIATA N. 7. Settembre 1997. (Indirizzo e telefono: vedi PERIODICI) 
DOMUS